Osvaldo

Osvaldo era un uomo buono. Molto buono. Da lui, a memoria di paesani, mai una parola sgarbata, un gesto sconveniente, un'azione che non fosse rigorosamente a fin di bene.

Al mattino impiegato nella biblioteca comunale, il pomeriggio e nei giorni festivi a casa in compagnia della vecchia gatta a leggersi qualche libro portato dal  lavoro o ad innaffiare i gerani alle finestre..

Tutti i giorni, al primo scampanare del Vespro posava gatta e libro sul poggiapiedi, porgeva il braccio alla vecchia madre che l'aspettava impaziente nell'ingresso ed insieme si avviavano verso la chiesa, proprio di fronte a casa.

 

Dalla parte opposta del paese, dove le case si affacciavano spaventate sul precipizio che sprofondava a valle, dimorava Magdalena, una giovane donna mingherlina e riservata che suddivideva equamente il suo tempo tra la casa, dove accudiva una sorella inferma e la madre rimbambita, e la chiesa.

Durante le funzioni religiose Osvaldo la notava inginocchiata sempre al solito posto, nell'ultima panca accanto al confessionale, assorta in fervida preghiera con le mani congiunte e il capo chino.

E mentre la madre era tutta presa dai misteri del Vespro, lui, qualche panca più in là provava ad immaginare cosa mai passasse in quella testolina nera fasciata da un foulard nero su un tailleur nero con camicetta nera e calze e scarpe rigorosamente nere. Forse un'offerta di sè in sublime sacrificio per la redenzione degli uomini, o forse una preghiera accorata contro le ingiustizie, la fame, le malattie, le guerre che insanguinavano il mondo.

Osvaldo non poteva sapere. Era un uomo troppo semplice e buono.

In verità la pia Magdalena pregava il Padreterno solo per una questione strettamente personale. Che Lui le mandasse quanto prima un uomo, un ometto qualsiasi, che la strappasse da quella solitudine immonda che le stava incollata addosso come una maledizione e le toglieva il respiro.... E che si sbrigasse a farlo perchè se no, lei se lo sentiva, prima o poi avrebbe fatto un casino con il prete, in qualche modo anche lui responsabile, che sarebbe rimasto negli annali del paese.

Ma tutto questo Osvaldo non poteva saperlo.

Anzi, con il passare del tempo, un Vespro dietro l'altro, quell'esserino fragile e indifeso, capace di una fede così grande, fece breccia nel suo cuore, dilagando per ogni dove anche verso le periferie tradizionalmente meno nobili ma foriere delle più grandi soddisfazioni

Un giorno, passandole accanto mentre usciva di chiesa, non resistè più e le rivolse la parola.

La sventurata rispose.

 

Fu un'estate rovente quella che divampò in quell'anno nella campagna riarsa, per le contrade assolate e deserte del paese e particolarmente al primo piano della casetta con i gerani rossi ai davanzali, davanti alla chiesa.

In  quella sola estate Magdalena, con impegno sovrumano e dando il meglio di sè riuscì a recuperare tutto ciò di cui il reo destino l'aveva ingiustamente privata fino ad allora.

Ma siccome era una donna molto pia ed Osvaldo un uomo buono e accondiscendente, lo fece come si conviene ad una fanciulla morigerata e col timor di Dio, quale lei era.

Abbondanti preghiere a due voci prima e dopo la 'consumazione', confessioni a non finire a tutte le ore del giorno e della notte, estenuanti digiuni riparatori, e così via.

 

Giunse rapidamente l'autunno.

Un giorno Osvaldo, guardandosi dentro e fuori allo specchio, non potè non constatare il grave stato di disfacimento psichico e fisico a cui la piccola e pia Magdalena l'aveva condotto.

Stimò che di quel passo, se non avesse preso qualche provvedimento, non sarebbe arrivato all'inverno.

E il provvedimento arrivò ma non fu lui a prenderlo ma qualcun altro che di lassù ebbe pietà.

Se ne andava Osvaldo sul suo calesse per la campagna, fradicia della pioggia della notte, godendosi quel paio d'ore di libera uscita che gli era mensilmente concesso, quando la sua attenzione fu richiamata da un gruppo di donne che, poco lontano, raccoglievano spinaci nei campi .

Si fermò ad osservare.

Si chiamava Sara, seppe poi. Una ragazzona con i capelli color senape raccolti sulla nuca, infagottata con un pullover e un paio di pantalonacci probabilmente appartenuti a suo padre o suo fratello maggiore.

Sara, affondata nel fango tra i colori dell'autunno. Sara sotto il cielo terso del primo mattino. Sara negli occhi e nel cuore di Osvaldo.

Lui scese dal calesse e le si avvicinò fermandosi davanti a lei.

Era un uomo semplice Osvaldo. E tendendole una mano, come se la conoscesse da sempre, con semplicità le chiese:

"Mi vuoi?"

Sara, con gli spinaci appena raccolti tra le mani, lo guardò a lungo, incerta e smarrita.

Poi posò gli spinaci nella cassetta accanto ai suoi piedi, si strofinò ripetutamente le mani nel grembiulone che l'avvolgeva e ponendo la mano in quella protesa verso di lei, con un pallido sorriso rispose:

"Si"

Si avviarono verso il calesse camminando nel fango come su un tappeto di petali di rose. Lei lo condusse in un vecchio casolare, ormai disabitato, di una sua parente che gli spinaci aveva smesso di raccoglierli da un pezzo.

E da quel casolare in mezzo ai campi Osvaldo non venne più via. Vi rimase così com'era quel giorno, con tanto di cavallo e di calesse, del tutto estraneo al pandemonio scatenatosi in paese  e insensibile all'eco degli anatemi scagliati contro di lui dalla piccola Magdalena e da tutte le pie donne del paese.

 

Le amorevoli cure di Sara  e una ferrea dieta a base di spinaci, rimisero Osvaldo rapidamente al mondo. Un mondo rusticano fatto di cose semplici, senza pretese, in cui Osvaldo si lasciò dolcemente sprofondare.

 

La nobildonna Gertrude Brunilde Elisabetta di Turingia aveva un assillo che le toglieva il sonno e la tranquillità. Trovare quanto prima un successore al prematuramente defunto marito, deceduto a seguito di una grave ferita riportata cadendo da letto durante una notte di bagordi.

E per trovarne uno che fosse veramente all'altezza delle aspettative, lei procedeva in maniera rigorosamente scientifica. Sperimentando.

La nobile Gertrude era donna profondamente democratica. Aborriva ogni distinzione degli uomini in base al censo, patrimonio o lignaggio. Per lei gli uomini erano tutti uguali.

Soltanto le capacita' e gli attributi erano importanti. In particolare quelli fisici. Tutto il resto non aveva importanza.

E per misurare quelle e quelli, dovendo urgentemente colmare il vuoto lasciato dal defunto - ma le male lingue dicevano da sempre - rimorchiava qua e la', dove capitava, chiunque a prima vista gli sembrasse un possibile successore.

Se la verifica aveva un esito soddisfacente, con spirito missionario lo ripuliva, se necessario, lo rivestiva di tutto punto e gli assegnava una stanza, tra le tante del suo maniero. Che si tenesse sempre pronto per ulteriori approfondimenti.

Dopo un po'  generalmente si accorgeva di essersi sbagliata e lo licenziava. Non prima ovviamente che un altro candidato avesse superato la prova delle capacita' e degli attributi.

Il sistema funzionava e non era poi del tutto sgradevole. Ma era indubbiamente faticoso per Gertrude che nonostante il sangue nobile era pur sempre una donna sensibile e delicata.

Per tale motivo, sul finire dell'estate, era solita migrare dal suo maniero per concedersi  un meritato riposo in una sua villa di campagna.

 

Osvaldo era un uomo semplice e buono.  E voleva sinceramente bene a Sara. Non poteva sapere.

Non poteva sapere che all'inizio del mondo, quando lui ancora non c'era e non poteva quindi essere interpellato, era stato scritto nel gran libro del Destino che ad una cert'ora di un giorno lontanissimo da venire lui sarebbe salito sulla carrozza della nobildonna Gertrude Brunilde Elisabetta di Turingia e sarebbe andato via con lei.

Osvaldo non poteva saperlo.

Ma quel giorno e quell'ora  puntualmente arrivarono, quando l'autunno era appena cominciato.

 

Mentre si trovava a girovagare in carrozza per le stradine tra i campi, cercando qua e là non si sa mai, qualche rustico bifolco da rimorchiare, Gertrude si imbattè in Osvaldo che, ignaro di tutto, se ne stava ritornando a casa dal lavoro

Nei romanzi d'appendice si incontrano spesso personaggi che provarono a ribellarsi al Destino, lottando eroicamente con tutte le loro forze prima di soccombere.

Osvaldo non lottò nemmeno un po'. Si arrese subito.

Era un uomo troppo mite e accondiscendente. Che senso avrebbe avuto lottare? Avrebbe perso in ogni caso. Ad un cenno di Gertrude, salì.

La prova andò bene: gli insegnamenti teorici e pratici della pia Magdalena risultarono estremamente utili, senza dimenticare, quel che è giusto, la parte di merito che Madre Natura ebbe nella riuscita.

Così Osvaldo si ritrovò trapiantato, dai campi fangosi degli spinaci, in una stanza ricca di drappeggi e di cuscini di seta al primo piano di un fastoso palazzotto rinascimentale alla periferia del paese.

La nobildonna non era tipo che nel talamo si contentasse di poco.

Osvaldo dovette impegnarsi molto per interpretare le parti che lei via via gli assegnava nelle sue trame fantasiose e con le scenografie più assurde. Il tutto generalmente accompagnato - passione ereditata dal defunto marito, ufficiale di cavalleria - da squilli di tromba e marce trionfali, molto apprezzate dai ragazzotti del luogo che accorrevano numerosi sotto le finestre e ascoltavano con grande partecipazione.

Ed anche l'autunno se ne stava andando, senza che Osvaldo, nella sua bella stanza stile Luigi XVI, se ne accorgesse.

Ma un giorno, mentre dalla finestra stava guardando il sole che tramontava dietro i colli che incorniciavano la pianura, si accorse improvvisamente di essere solo. Spaventosamente solo.

E dall'abisso della sua solitudine emerse nitida una domanda:

"Ma io qui che ci sto a fare?"

Non trovò una risposta decente.

Se ne andò. Così com'era, nella sua elegante vestaglia color cremisi e pantofole di velluto con lo stemma dorato del casato. Senza dir niente a nessuno

Osvaldo era fatto così. Un uomo semplice ed essenziale, senza tanti ghirigori nella testa.

Semplicemente aprì la porta e se ne andò.

Camminò fino a notte, e nella notte fino all'alba. Piovigginava.

Sara era insieme ad altre donne nei campi, con gli stivali affondati nel fango e coperta da un cellophan che l'avvolgeva dalla testa ai piedi.

Quando si accorse di Osvaldo fermo sulla strada, con la sua vestaglia color cremisi grondante di pioggia e le pantofole di velluto ridotte a grumi di fango, lo guardo' per qualche attimo incredula e smarrita.

Poi posò gli spinaci nella cassetta ai suoi piedi e dopo essersi strofinate ben bene le mani nel grembiulone che le cingeva la vita ando' verso di lui.

Quando gli fu davanti, accennando un pallido sorriso gli porse la mano dicendo:

"Mi vuoi?"

Osvaldo era un uomo semplice e buono.

Prese la mano protesa nella sua e con semplicità rispose:

"Si"

 

Le favole per i  bambini di una volta spesso terminavano con la  frase rituale:

"... e vissero felici e contenti"

Adesso non usa più. I bambini nascono già grandi. Si scompiscerebbero dalle risate.

Ma per Sara ed Osvaldo fu proprio così.

 

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