Arturo

La colpa fu tutta della maestra.

Non si può di fronte agli altri alunni della classe, tra cui - nota bene - la bimba del cuore, dire ad un uomo di nove anni che è un po' troppo grasso e che se non avesse mangiato meno sarebbe diventato come il direttore.

Non si può assolutamente. Considerato ovviamente che il direttore in questione era famoso in tutta la scuola e nel circondario per la sua ributtante grassezza.

La maestra lo disse, e lui non glielo perdonò mai. La odiò. Di un odio così squisitamente genuino quale è difficile trovare persino negli adulti più allenati.

Per un po' di tempo tutti i giorni nel suo lettino, dopo le preghiere della sera, pensò intensamente quale sarebbe stata la morte più efferata con cui punire la colpevole. Poi, esaurite le risorse della sua pur possente fantasia di bimbo, e considerato che c'erano anche altre cose a cui pensare, quali ad esempio due occhi azzurri e una treccina d'oro, lasciò la maestra nel suo brodo e andò oltre.

La sacrilega offesa della maestra un segno però lo lasciò e nemmeno tanto piccolo.

Qualunque cosa lei dicesse o si sforzasse di far entrare nella sua testa, lui istintivamente si orientava al contrario. Ciò che era bello e piacevole per lei, diventava automaticamente brutto e insopportabile per lui. E viceversa.

Tra lui e quella donna non poteva proprio esserci niente in comune.

La maestra era una donnetta un po' avanti negli anni che viveva con l'angoscia continua di finire i suoi giorni zitella consacrata. Per questo motivo pregava quotidianamente il Padreterno che gli mandasse un uomo, un ometto qualsiasi, così da potersi gloriare con colleghi e conoscenti: "Mio marito mi ha detto..., mio marito mi ha fatto..., io e mio marito siamo andati..."

Quello era il sogno della sua vita. E d'altra parte non era giusto che le altre, libertine immorali, avessero un marito al seguito e lei, ben più meritevole, ne fosse sprovvista. Questa era una grave mancanza a cui il Padreterno prima o poi avrebbe dovuto rimediare.

Nell'attesa lei educava il suo spirito alle cose belle.

E con il suo spirito contemporaneamente educava i poveri innocenti affidati alla sua mercè.

In classe con loro era tutto uno sproloquiare di cieli limpidi e candide nuvolette, di viole che crescono sulle soglie dei conventi, di papaveri rossi nei fossi, di pioggerelline di marzo che picchiano argentine sulle tegole vecchie dei tetti e altre sdolcinerie del genere.

Arturo, questo era il suo nome, subiva.

Ma sotto la guida paziente della maestra imparò a detestare i papaveri, le viole e tutti i fiori in genere, a odiare le insulse e uggiose pioggerelline di marzo, ad aborrire gli squallidi cieli limpidi con contorno di nuvolette, ecc. ecc.

Passarono gli anni. Arturo crebbe e diventò un giovanotto. La sua amata si sposò con l'alunno più antipatico e ruffiano della scuola. La maestra raggiunse il Padreterno col meditato proposito di una sana leticata per l'ingiustizia subita.

Ma gli insegnamenti del maestro, si sa, lasciano una traccia profonda nell'animo dei fanciulli.

Così per Arturo. Ovviamente all'incontrario.

C'era un piccolo giardino dietro la casa ed Arturo l'aveva ottenuto in concessione dai genitori per poter esprimere sul campo le sue potenzialità di giardiniere.

Tutte le mattine, indossati un cappellaccio, guanti e stivali lo perlustrava amorevolmente palmo a palmo, con una zappetta in mano, per bonificarlo di tutte le piante infestanti. Che nel suo caso erano margheritine di campo, violette piovute lì da chissà dove, sprovveduti papaveri e fiori in genere. Non li tollerava perchè a suo dire, deturpavano l'aspetto del giardinetto che secondo il suo canone estetico doveva essere primordiale, selvaggio, aspro e forte. Un roveto, per dirla in breve.

Ad opera compiuta si poneva sul cancellino, con il cappello appoggiato sul cuore, e sotto lo sguardo sconfortato dei genitori se lo rimirava soddisfatto.

Arturo. Tanto buono, ma un "pochino" strambo secondo l'opinione dei paesani, che talvolta, per compiacerlo, si piegavano alle scemenze più demenziali.

"Pessima giornata, eh, Arturo?" gli dicevano incontrandolo, se nel cielo c'era un sole che spaccava le pietre.

"Uno schifo" rispondeva lui.

Oppure, se nel cielo si addensavano nuvoloni forieri di tempesta:

"Sembra che il tempo stia migliorando, che ne dici Arturo?"

"Speriamo proprio."

Perchè Arturo era fatto così. Le belle giornate primaverili o d'estate che fortificano e allietano i comuni mortali, su Arturo avevano l'effetto opposto. Lo deprimevano, lo rendevano di pessimo umore. Preferiva allora starsene il più possibile in casa, in una specie di letargo, aspettando la bella stagione, che per lui era ovviamente l'inverno.

Allora sì che si vitalizzava. Diventava allegro ed esuberante, entrava ed usciva di casa in continuazione, si intratteneva a chiacchiera con i paesani, scherzava, rideva. Insomma, era un'altra persona.

Per i temporali poi aveva una particolare predilezione. Lo schianto dei tuoni e il guizzare delle saette lo incantavano. Quelli notturni poi lo mandavano addirittura in estasi.

Poco lontano da casa c'era una collinetta con in cima una piccola radura circondata da alberi e cespugli, come la chierica di un frate. Un semplice rialzo del terreno, niente di più ma curiosamente inspiegabile considerato che tutto intorno a perdita d'occhio il paesaggio era di un piattume desolante. I paesani, infischiandosi delle dotte spiegazioni di qualche geologo locale, la chiamavano semplicemente "la Verruca".

Per Arturo la Verruca era come a Verona il balcone per Giulietta, il luogo dell'attesa, dell'incontro. Non certo con l'amata, bensì con tutti i temporali che passassero di lì.

Quando se ne stava per scatenare uno sul paese, Arturo, in grande agitazione, indossava l'impermeabile, sempre pronto per la bisogna all'attaccapanni dell'ingresso, afferrava l'ombrello, di quelli grandi di incerata verde che usano i pastori per riparare, in caso di pioggia, se stessi e tutto il gregge, e correva sulla Verruca.

Là in cima, appoggiata ad un albero, c'era una sedia a sdraio pieghevole. Arturo l'afferrava, la portava in mezzo alla radura, e, apertala, vi prendeva posto, sempre con la faccia rivolta al temporale in arrivo.

E là in mezzo alla radura, sdraiato sul suo trono pieghevole e con l'ombrello verde spalancato sulla testa, Arturo era il più felice degli uomini. Sotto la pioggia scrosciante, nel fragore dei tuoni e il bagliore accecante delle saette, egli sentiva fluire in sè l'energia cosmica primordiale. Era accanto a Dio, diceva, in un flashback della Creazione.

Un mattino, dopo un temporale notturno di straordinaria intensità i suoi genitori ed alcuni paesani, non avendolo visto tornare a casa, risalirono la Verruca alla sua ricerca.

Là in cima, in mezzo alla radura, sdraiato sulla sua pieghevole e con l'ombrello verde scheletrito in mano, c'era Arturo. Chi lo vide riferì che sul suo volto, annerito dal fulmine assassino, c'era un sorriso strano, come di felicità

 

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