Ferruccio Chiamarlo paese era già un'esagerazione. L'abitato consisteva soltanto in un grumo di case intorno alla chiesa, altre snocciolate lungo l'argine del fiume ed altre ancora sparpagliate qua e là nei campi vicini. Case semplici e modeste, come i loro occupanti d'altronde, contadini di generazione in generazione da tempo immemorabile. Il fiume era in perfetta armonia con il paese, e non poteva essere altrimenti. Tranquillo e silenzioso, vi portava la poca acqua di cui era capace, lo avvolgeva amorevolmente con un'ampia ansa e poi se ne dipartiva alla ricerca del mare, se mai gli fosse riuscito di raggiungerlo. Per gli abitanti del luogo fiume e paese erano un tutt'uno. Inconcepibile l'uno senza l'altro. Un ponte in pietra, costruito chissà quando da mani sapienti, univa il paese all'argine opposto del fiume, ad uso di coloro che il campo da coltivare ce l'avevano dall'altra parte. Di là stranamente, non c'era nessuna casa, come se per tradizione o per una qualche scaramanzia le case dovessero essere costruite all'interno dell'ansa e mai all'esterno. Dalla piazzetta dietro la chiesa si distaccava una strada sterrata, scavata dalle ruote dei carri e dal passo continuo di uomini e muli e, dritta come un'autostrada, si inoltrava nei campi tra rogge e filari di pioppi.. Al primo chiarore dell'alba gli uomini, alla spicciolata o a piccoli gruppi, vi si incamminavano per l'appuntamento con la loro quotidiana fatica, e a sera ritornavano a casa.. Così da sempre, da quando era nato il paese. Poi sembrò che da un momento all'altro tutto dovesse cambiare, che il naturale svolgersi degli eventi dovesse essere sconvolto. Una domenica mattina infatti, al termine della Messa, il parroco annunciò dal pulpito che di là a breve si sarebbe verificato un grande evento che avrebbe arrecato ricchezza e prosperità al paese. Per l'interessamento di Sua Eminenza illustrissima il Vescovo al loro paese sarebbe arrivata la ferrovia. Da quel momento in paese non si parlò d'altro. Tra l'entusiasmo generale fu subito organizzato un comitato per l'accoglienza e promossa una colletta per raccogliere i fondi per i festeggiamenti. E la ferrovia arrivò in effetti. Ma non si fermò. Tra l'imbarazzo del parroco e lo sgomento dei parrocchiani, proseguì indifferente verso un paese più grande o forse con un Vescovo più potente. L'arrivo della ricchezza e della prosperità per il paese era rimandato a data imprecisata. Come se non bastasse, per i paesani alla beffa si unì anche il danno. La strada ferrata infatti, correndo lungo il fiume e dietro il paese si frappose tra questo e i campi da coltivare, tagliando la strada che i paesani percorrevano nel loro quotidiano pellegrinaggio. L'attraversamento dei binari risultò subito disagevole per i carri e decisamente rischioso per i muli e per i cristiani. Gli abitanti del luogo si mobilitarono. Sotto la guida del parroco, alla disperata ricerca della perduta verginità una loro delegazione si recò in città per chiedere a chi di dovere che venisse fatta giustizia. E stranamente un po' di giustizia arrivò. Vuoi la tragica morte di due muli ammazzati dal treno, vuoi la scampata analoga sorte per qualche contadino, ma soprattutto, fece notare il parroco, il prestigio e l'autorevolezza dell'abito che indossava, convinsero le illustrissime Autorità Competenti alla costruzione di un casello ferroviario con un passaggio a livello sull'incrocio incriminato. In tal modo, con modesta spesa, avrebbero definitivamente zittito quei bifolchi petulanti.
Ferruccio, il ferroviere non lo voleva proprio fare. Il solo pensiero di passare i suoi giorni su quei serpentoni neri stridenti e fumanti lo faceva inorridire. Che vita era quella? Sempre su e giù nel rumore assordante, con il fumo e la polvere di carbone negli occhi e nei polmoni. Molto meglio starsene all'aria aperta nei campi con le galline, le anatre e i conigli. Lui non era adatto per quel lavoro. Quelli di città forse. E poi dove l'avrebbero sbattuto? Il paese e i campi che lo circondavano erano il suo mondo, i paesani la sua gente. Non avrebbe potuto vivere altrove. Ma suo padre sognava per lui un avvenire diverso. Le sue insistenze ebbero alla fine il sopravvento. Più per non dispiacere al padre che per convinzione, Ferruccio si arruolò nelle Ferrovie. Ebbe fortuna. Dopo un breve periodo su quei serpentoni neri che detestava, per l'interessamento di qualcuno che, conoscendolo, aveva imparato ad apprezzare il suo buon carattere, o per l'intervento della Divina Provvidenza, come gli disse una volta il parroco, si ritrovò a fare il casellante al suo paese, tra la sua gente, su quella strada che tante volte aveva percorso insieme a suo padre per recarsi al lavoro nei campi. Il casello non era certo una reggia. Una stanza per il 'lavoro', con una porta ed una finestra che si affacciavano direttamente sui binari, e sul retro una paio di stanzette per sè con due finestre più piccole che guardavano, una il fiume e il paese, e l'altra i campi. Non era una reggia, ma era la sua casa, al suo paese. Con qualche mobile trasportato dalla sua vecchia casa paterna e sotto la guida vigile della madre che volle a tutti i costi sovrintendere alle operazioni, l'arredò a suo piacimento rendendola, per quanto possibile, comoda e confortevole. Ferruccio non tardò ad abituarsi al nuovo lavoro e alla sua nuova vita. Non lo diceva apertamente ma cominciò ben presto a piacergli sia l'uno che l'altra. Il lavoro non era certo spossante come quello che aveva conosciuto sui campi. Tutto si riduceva all'azionamento delle barriere quando gli veniva segnalato l'arrivo di un treno, e di uno scambio, una volta ogni tanto, per smistare un treno su un binario morto quando ce n'era un altro piùimportante che aveva urgenza di passare. Spossante no, ma certo di responsabilità. E Ferruccio quella responsabilità la sentiva tutta, e anche di più. Quelli che passavano per quella strada dei campi non erano ignoti passanti, ma persone che conosceva da quando era nato. Conosceva tutto di loro, le necessità i desideri, le preoccupazioni. Conosceva la loro fatica. Sapeva quanto fossero inermi di fronte alle malattie, che non avevano i soldi e il tempo per curare, destinati ad una vecchiaia precoce che non potevano evitare, soggetti alle ingiustizie di una società che li sfruttava e non si curava minimamente di loro. Col passare del tempo si consolidò in lui un sentimento quasi protettivo nei loro confronti. Un istinto materno. Quando era preannunciato il transito di un treno, Ferruccio non si limitava al pronto abbassamento delle barriere, ma si poneva davanti ai binari, di notte con una lanterna rossa in mano, scrutando attentamente da una parte e dall'altra che nessuno per un motivo o per l'altro li attraversasse. Lui lo sapeva che quando a sera i suoi compaesani ritornavano dai campi erano così stanchi da procedere come i muli, più per istinto che per discernimento. Lui l'aveva provato. Doveva avere occhi anche per loro. E poi c'erano i ragazzini. Per loro passare sotto le barriere era il gioco preferito. E c'erano i vecchi che per attraversare i binari impiegavano un'eternità. A tutti doveva prestare attenzione. Di tutti era responsabile. Dietro il casello c'era un campo incolto, di proprietà delle Ferrovie, che d'inverno era tutto un pantano e con la bella stagione si rivestiva d'erba e di fiori e provvedeva a sfamare qualche mulo o gregge di pecore. Ferruccio ne recintò una parte che, negli ampi ritagli di tempo che il lavoro gli lasciava libero, dissodò e trasformò in un piccolo orto. Coltivarlo lo appassionò. Gli parve di riscoprire una parte di sè che aveva dimenticato, riannodare un legame antico con quella terra che l'aveva generato. E tra il casello e l'orto i giorni trascorrevano per Ferruccio, e con i giorni la vita. Morirono i vecchi genitori, uno dopo l?altro. "Perchè non ti sposi Pipino? - gli dicevano i paesani che affettuosamente l'avevano così ribattezzato - Una donna ti farebbe compagnia e avrebbe cura di te." "E come farei con il mio lavoro? Dove la metterei? Qui nel casello non c'è posto per due." Così Ferruccio rimase solo. Col suo lavoro e con il campo da coltivare.
Di giovani in età per sposarsi non ce n'erano tanti in paese. I matrimoni erano così rari da essere considerati eventi straordinari. Quando se ne celebrava uno, alla funzione religiosa, con gli sposi, c'erano tutti i paesani. Quelli che c'entravano, stipati all'inverosimile nella piccola chiesa, e gli altri in paziente attesa sul piazzale antistante. Il parroco, circondato dai chierichetti al completo, faceva bella mostra di sè nei paramenti sacri delle grandi occasioni, eredità dei parroci precedenti e che lui, a sua volta, avrebbe trasmesso al suo successore, molto a malincuore per la verità e sperando il più tardi possibile . I festeggiamenti dopo la cerimonia si protraevano fino a sera. I commenti per una settimana. Per Matteo e Fiorella il matrimonio era ancora lontano, anzi, non erano neppure fidanzati ufficialmente. "Siete troppo giovani,- dicevano i genitori rispettosi di una tradizione che per ogni evento importante, dal battesimo all'estrema unzione, stabiliva rigorosamente tempi e modi di effettuazione - dovete pazientare." E loro, impazienti come l'età esigeva, pazientavano. Matteo, poco più di un ragazzo, coltivava la terra insieme al padre. Il suo campo era proprio accanto all'argine, separato dal fiume da un filare di pioppi. "La meglio terra." diceva con orgoglio. Fiorella aiutava la madre e la nonna a mandare avanti una piccola sartoria domestica per i paesani. Attività indispensabile, considerato che il padre era morto quand'era ancora bambina. "Un vestito rammendato da mia figlia ritorna nuovo - diceva la madre - Ha le mani d'oro." E i clienti per la verità non mancavano, sia per l'abbondanza dei rammendi da effettuare che per l'abilità della sarta. Due giovani non diversi dai tanti che li avevano preceduti e dai tanti ancora che li avrebbero seguiti. Si volevano bene, e tutti in paese lo sapevano. La domenica era l'unico giorno in cui potevano vedersi e stare un po' insieme. Non da soli, ovviamente. Un cuginetto di lei, opportunamente istruito e severamente minacciato, era il terzo incomodo. Molto incomodo. Incomodissimo, per la verità. Ci volle del tempo e molta pazienza per renderlo più accomodante. Ma alla fine i due innamorati riuscirono a convincerlo che giocare per una mezz'ora con gli altri ragazzini del paese nella piazzetta dietro la chiesa, era un'alternativa che ben valeva una piccola bugia. Fu così che i promessi sposi la domenica pomeriggio, giorno di libera uscita, scaricavano l'incomodo dietro la chiesa e proseguivano oltre il passaggio a livello verso l'argine del fiume, a cercare un po' di sacrosanta solitudine.
Dopo tante belle giornate di sole, una bruma spessa, impenetrabile gravava sul paese, come una maledizione. Ferruccio si era destato malamente dopo una notte inquieta. Aveva girovagato tutta la mattina dentro e fuori il casello, svolgendo il suo lavoro con la consueta diligenza ma con fatica. Gli pareva che una grande stanchezza si fosse impadronita di lui e non lo volesse lasciare. "Sarà per questa nebbia schifosa - si era detto - domani sarà tutto passato." Poi nella tarda mattinata la nebbia era scomparsa, lasciando però un cielo grigio e piovigginoso a ricoprire il paese, il fiume, i campi e tutto il resto. L'omelia del parroco, evidentemente a corto di argomenti, fu particolarmente noiosa. Fiorella e Matteo, lei in cima e lui in fondo alla chiesa, non fecero altro, per tutto il tempo, che cercarsi con gli occhi, nonostante le ripetute gomitate della madre alla figlia. Nel pomeriggio si sarebbero incontrati, come tutte le domeniche. Quando si avviarono verso l'argine la nebbia stava rifacendo la sua comparsa. Ferruccio li vide passare davanti al casello, e, come sempre, fece finta di non accorgersi di loro. Al ritorno la nebbia era tornata densa e greve, come al primo mattino. Matteo sapeva che la madre di Fiorella sarebbe stata in ansia e sollecitava la ragazza ad affrettarsi. Quando giunsero al passaggio a livello le barriere erano alzate. Matteo si inoltrò sui binari. Si fermò e si volse verso Fiorella che era rimasta qualche passo indietro. La sollecitò ancora ad affrettarsi e le tese la mano. Il treno sopraggiunse senza che i due giovani se ne accorgessero.
Ferruccio, seduto al tavolo nella stanza di lavoro con la lanterna accesa davanti a sè stava consultando i registri e gli orari dei convogli. Non riusciva a spiegarsi il mancato transito di uno di essi . Aveva ripetutamente cercato di mettersi in contatto con la Centrale per avere spiegazioni e istruzioni, ma non c'era riuscito. L'enorme ritardo e il silenzio delle comunicazioni lo avevano messo in agitazione. Con quella nebbia poteva succedere di tutto. Lo stridio assordante dei freni e lo sconquasso delle carrozze fecero vibrare e sobbalzare tutti gli oggetti nella stanza. La lanterna si rovesciò sul tavolo, rotolò e cadde a terra. Si spense.
La finestra dava su un vicolo che portava alla chiesa. Ferruccio non l'apriva mai. Se ne stava quasi tutto il giorno dietro i vetri guardando con distacco le case di fronte, le persone che si affacciavano alle finestre o che passavano per la strada, i campi che si intravedevano, da un lato, sullo sfondo. Quelle case, le persone, i campi non erano diversi da quelli che ben conosceva, ma non erano il suo paese, la sua gente, la sua terra. Da un anno lui non viveva più lì. Il parroco di un paese vicino gli aveva dato alloggio in una stanza inutilizzata della canonica. Da quella lui non era mai uscito. La perpetua tutti i giorni saliva per portargli qualcosa da mangiare, spalancava la finestra per dare un po' d'aria alla stanza e prima di uscire la richiudeva. Lui ricambiava versando alla chiesa tutta la piccola pensione che le Ferrovie gli passavano da quando, dopo l'incidente, aveva lasciato il servizio. Un anno può essere tanto o poco. Dipende dalle circostanze, dagli eventi, dalle persone. Per Ferruccio quell'anno era stato niente. Il suo tempo si era fermato quella domenica pomeriggio, quando affacciatosi tremolante alla porta del casello aveva visto, tra il fumo e la nebbia, il treno fermo sui binari e i passeggeri concitati.. chi si affacciava ai finestrini, chi scendeva dalla carrozza, chi chiedeva spiegazioni. E i macchinisti con le lanterne in mano che andavano su e giù per i binari e scrutavano sotto le carrozze. E c'era chi gridava, gridava... Poi erano arrivati quelli del paese che chiedevano, volevano sapere.. E i genitori di lei, di lui...
Il casellante non aveva alcuna responsabilità. La causa dell'incidente era stata un guasto sulla linea di trasmissione che comunicava al casello il transito dei convogli. Così era scritto nella relazione conclusiva della Commissione d'inchiesta che aveva indagato sull'accaduto. Ma Ferruccio non volle tornare al suo lavoro sulla strada dei campi nè accettò l'offerta di essere trasferito altrove. Lasciò definitivamente il servizio nelle Ferrovie. Non volle neppure continuare a vivere nel suo paese. Come avrebbe potuto? Lui non era responsabile, era scritto nella relazione, ma che importanza poteva avere una relazione? Di fronte alla sua coscienza lui era colpevole. Quei due giovani avevano perso la vita perchè lui non aveva fatto nulla per evitarlo. Avrebbe dovuto capire che il ritardo di quel convoglio e il silenzio nelle comunicazioni non erano normali, che un guasto tecnico era possibile, che quel treno prima o poi sarebbe transitato. Lui sapeva che quei giovani sarebbero ripassati di lì a poco, e con quella nebbia. Colpevole, colpevole.. senza ombra di dubbio. E come lo sapeva lui, lo sapevano anche i suoi compaesani. Loro non leggevano le relazioni, non s'intendevano di treni e di sistemi di comunicazione. Per loro quei giovani erano morti perchè lui non aveva azionato le barriere. Punto e basta. Come avrebbe potuto continuare a vivere in mezzo a loro? E come avrebbe potuto guardare negli occhi i genitori di lei, di lui ? Doveva andar via. Portarsi dietro la sua colpa e scontarla lontano da tutti, da solo. Il parroco aveva chiesto allora ad un suo parente, anche lui parroco di un paese vicino, di trovargli un alloggio perchè lui potesse andarci a vivere. E Ferruccio vi si era trasferito, lasciando tutto, il paese sul fiume, la sua gente, i campi.
Dalla finestra sul vicolo si riusciva a malapena a distinguere le case di fronte e i rari passanti giù nella via. La nebbia fitta, insistente, non dava tregua, sin dal primo mattino. A momenti sembrava che volesse diradarsi e dopo poco ritornava ad infittirsi, inesorabile. Ferruccio si fermò un attimo sulla soglia, si voltò per dare un' ultima occhiata alla stanza che l'aveva ospitato per un anno, poi chiuse la porta e cominciò a scendere le scale verso la strada. Non aveva nulla con sè aveva solo indossato un impermeabile di incerata e messo un cappellaccio per proteggersi da quella nebbia maledetta. Se ne andava. Che ci stava a fare, lì in quella casa? Forse che guardare il mondo da una finestra serviva a qualcosa? Giovava a qualcuno? Era solo un modo puerile e vigliacco di sottrarsi alle proprie responsabilità. Non era quello che suo padre gli aveva insegnato e in cui lui aveva sempre creduto. "Sono gli altri che ti fanno vivere, da soli si muore." gli aveva detto una volta, mentre lo esortava a metter su famiglia. Ma allora non aveva capito. Allora non poteva immaginare cosa fosse la solitudine. Lui non aveva nè moglie nè figli, però aveva la sua gente. Il suo lavoro, per poco che fosse, era per loro. Erano loro che davano un senso alla sua vita. Fino ad un anno prima. Doveva riprendere possesso di sè ed affrontare la realtà. La strada che conduceva al suo paese si snodava nei campi, tra rogge e filari di pioppi. Ferruccio, insaccato nel suo impermeabile e con il cappello tirato giù fino agli occhi, camminava spedito, nonostante la nebbia fitta e le pozzanghere disseminate sulla via. In un paio d'ore, forse prima, sarebbe tornato a casa. L'aria fresca ed umida sul viso e l'odore della terra fradicia gli procuravano una sensazione di benessere quale non provava da tempo. E la decisione che aveva preso lo aveva liberato da un peso che stava diventando ogni giorno più gravoso e insopportabile.. Si sentiva finalmente libero e in pace con se stesso. Ferruccio conosceva bene quella strada. La percorreva da ragazzo insieme ai suoi genitori sotto le feste di Natale e di Pasqua per andare a far compere al mercato nel paese vicino. "Per rivestirsi" diceva sua madre. Suo padre, davanti sul carro, al governo del mulo, e lui e sua madre seduti dietro tra i sacchi di farina che, con l'occasione, portavano al mercato. Sua madre e suo padre, lui non li aveva mai dimenticati. Anche adesso gli tornavano alla mente, e il loro ricordo era più vivido che mai. Per un attimo ebbe la sensazione che camminassero insieme a lui.. La nebbia lo avvolgeva, come cosa viva, incorporea, evanescente. Si insinuava nella sua mente confondendo presente e passato, realtà e immaginazione. "Mamma, a che servono le stelle?" "A far bello il cielo la notte." Allora lui chiudeva gli occhi e provava a immaginarselo il cielo senza la luna e le stelle, ma non era più un cielo quello che rimaneva, era una voragine immensa, nera e cupa che lo sovrastava, pronta ad inghiottirlo. Era la notte dell'Ascensione. Lui se ne stava supino sull'erba davanti al grande falò che i suoi genitori avevano acceso per bruciare le sterpaglie. E mentre loro erano indaffarati su e giù con i forconi, lui guardava affascinato le faville che si staccavano dalle fascine ardenti e salivano su a frotte, ondeggiando, verso il cielo. Qualcuna si fermava quasi subito.. altre arrivavano più in alto...poi ad una ad una si spengevano. E di loro non rimaneva più nulla, come se non fossero mai esistite. Tutto intorno la notte, immensa e misteriosa. Ma c'era il bagliore del falò che la teneva lontano e c'erano i suoi. La notte non faceva paura. E poi c'erano le stelle. Adesso era solo, e quella nebbia gli era addosso, lo lambiva, lo insidiava da ogni parte. Ma Ferruccio non se ne curava. Non aveva più paura di nulla, adesso.
Il pomeriggio stava volgendo a sera quando all'improvviso, tra la nebbia, si aprì davanti a lui la piazzetta del suo paese. Era vuota e silenziosa. Non c'era nessuno dei suoi compaesani di ritorno dai campi, nessuna donna ad attenderli, nessun ragazzo a giocare. Come se la nebbia se li fosse inghiottiti. Ferruccio quasi stentò a riconoscerla. Si inoltrò di qualche passo verso la chiesa e si volse tutt'intorno a guardare, per quanto la nebbia lo consentiva. Le case, l'abbeveratoio per i muli, la vecchia quercia su cui tante volte da ragazzo si era arrampicato, i carri sottostanti, nulla era cambiato. Eppure tutto era diverso. Non era quella la piazza che ben conosceva. Cominciava a far buio. Ferruccio estrasse dal taschino del gilet l'orologio, unico ricordo del suo servizio nelle Ferrovie, ed alla poca luce che ancora filtrava, guardò l'ora. Doveva affrettarsi. Voltò le spalle alla piazza, e, insaccatosi ancora di più nel suo impermeabile, si avviò per la strada dei campi. Poco dopo, il casello prese lentamente forma in fondo alla strada. Un lampione illuminava a malapena le barriere alzate e i binari lucenti che scomparivano poco più in là. Ferruccio riuscì a vedere anche uno scorcio di quel campo che aveva coltivato con tanta passione e che adesso non era più suo. Come tutto il resto, d'altronde. Come la piazzetta della chiesa, la strada dei campi, e quel casello che era stato la sua casa. Come il fiume, che di là non riusciva a vedere e quel bel ponticello in pietra che qualcuno, nella notte dei tempi, aveva costruito perchèi suoi compaesani potessero andare a coltivare i campi dall'altra parte. Quel mondo a cui lui apparteneva non esisteva più. Quel tempo era finito, concluso definitivamente. Lui adesso non aveva più un posto dove andare, un tempo per vivere. Ma non era amareggiato. Tutto gli parve così semplice così naturale. Provava solo un piccolo rimorso. Avrebbe voluto conoscerli meglio quei ragazzi che tutte le domeniche passavano accanto al casello per andarsi a rifugiare dietro l'argine. Lui faceva finta di non vederli per non metterli in imbarazzo, ma sbagliava. Avrebbe dovuto salutarli per nome, come faceva con i paesani che andavano al lavoro, parlare con loro, ridere, scherzare. Loro erano la vita, la gioia. Non meritavano la sua stupida finzione. Poco distanti dal casello, sotto un albero al lato della strada, c'erano due vecchie seggiole impagliate, messe lì da mani premurose per alleviare l'attesa degli anziani quando le barriere erano abbassate per il passaggio di un treno. Ferruccio le accostò tra loro e con il palmo della mano le asciugò alla meglio. Si sedette su quella più malconcia e traballante. Estrasse nuovamente l?orologio dal taschino e guardò l'ora. Non avrebbe dovuto aspettare molto.
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