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Porto Santo Stefano da ricordare

Buongiorno!

Mi ricordo...

 


di  Silvio Ghezzi

1) Il sommergibile, il rimorchiatore e la paranza

 

Eravamo agli ultimi giorni del “fiorente Maggio” del 1943. Le scuole quell'anno chiuse in anticipo causa la guerra in corso e : Tutti Promossi!!!

Da Roma io, mia madre e mio fratello ci trasferimmo a Porto Santo Stefano dai nostri nonni che abitavano in una bella casa in Piazzale del Valle.

Tutti i giorni io e mia zia Maria, nonostante gli allarmi e le raccomandazioni tipo: “C'è la guerra! Non allontanatevi! ecc “, prendevamo il nostro pattino (o moscone che dir si voglia) e andavamo a spasso nel porto e spesso a fare il bagno al Viareggio oppure alla Cantoniera.

Il molo di Levante ( o molo Scarabelli) all'epoca non esisteva; l'entrata del porto era protetta dallo sbarramento anti-siluro: una grossa rete metallica verticale a larghe maglie, sorretta da una lunga fila di galleggianti cilindrici. Lo sbarramento era quasi sempre chiuso ed un bel rimorchiatore provvedeva ad aprire e chiudere la sua porta quando entravano ed uscivano le navi dell'Asse.

Ricordo che nel porto c'era sempre un via-vai di unità germaniche e della Regia Marina.

Un giorno dei primi di giugno io e Maria ci avviammo, con il nostro pattino, verso la sbarramento, per attraversarlo, ma un marinaio, di vedetta sul molo, con un grande megafono, gridò:

"BATTELLO – BATTELLO, NON PASSARE LO SBARRAMENTO!!!"

Noi due, intimoriti più dalla gran voce che da un eventuale pericolo, cominciammo a remare lungo il lato interno dello sbarramento.

Giunti dietro la poppa del rimorchiatore cominciò il finimondo! Alcune cannonate, provenienti dal mare, colpirono il rimorchiatore che affondò subito con la poppa ma rimase a galla con la prua puntata verso il cielo. I suoi marinai avevano già raggiunto il molo a nuoto.

Maria, molto flemmatica, chiese: “Livio, sarà meglio tornare a terra?”, ma io già remavo con tutte le mie forze verso la darsena.

Durante la nostra corsa tutte le batterie di Lividonia e del Calvello aprirono il fuoco verso il mare e i loro proiettili passavano sopra la nostra testa. Sembrava il 15 di agosto di tempo migliori!

Arrivati allo scalo della darsena, erano rimasti ad attenderci tre maestri d'ascia: Eliseo Sclano, Amedeo e Beppe Lacchini. Essi afferrarono il nostro pattino e dissero: “Correte al rifugio, svelti, c'è un sottomarino inglese! In paese non c'è più nessuno!”

In seguito abbiamo saputo che il sottomarino era emerso fuori Cala Grande ed aveva raggiunto indisturbato, il nostro porto costeggiando la scogliera, al riparo delle batterie che non potevano vederlo. Colpito, il rimorchiatore si era rifugiato sott'acqua ed era fuggito.


Il giorno dopo io e Maria, con la mia mamma e mio fratello, fummo trasferiti in campagna nei pressi di Casale Marittimo, lontani dal mare per non combinare altri guai.

Al nostro ritorno, nel 1944, ritrovammo Porto Santo Stefano completamente distrutto e fummo costretti a prendere alloggio al villino di Fioravanti.

Un pomeriggio osservavo due pescherecci che pescavano con la rete a strascico dalla Cantoniera in direzione di Punta Madonnella.

Le barche, sopravvissute alla guerra, pescavano sempre molto vicine alla costa per non afferrare qualche mina vagante.

Ad un tratto il primo peschereccio, l'ENZO, detto lo “Zucchino” per il colore verde e per la prua rotonda, cominciò a salpare la rete e si diresse verso la Madonnella. Giunto alla Punta vidi una colonna d'acqua altissima, seguita da una tremenda esplosione.

L'ENZO cominciò ad affondare ma venne salvato e rimorchiato fino alla Darsena dalla SILVIA, vecchia paranza di proprietà di Silvio de Pirro, che era corsa velocemente in suo aiuto.

Sommergibile inglese classe U (costiero)

operante nel Mediterraneo

Porto Santo Stefano. Il porto (1943)

(Clik per ingrandire)


Conclusione

Tanti anni dopo, nel 2007, ricordando l'episodio con l'amico Nazareno, figlio del proprietario dell' ENZO, fui informato che la loro barca aveva pescato un siluro davanti al porto e lo stava rimorchiando sott'acqua fuori del golfo. Quando giunse davanti alla Punta della Madonnella il siluro aveva toccato il fondo ed era esploso.

La mia domanda: “Ma chi aveva perso il siluro?”

La risposta: “Un sottomarino inglese, prima di prendere a cannonate il rimorchiatore dello sbarramento, gli aveva lanciato contro il siluro che aveva fatto cilecca ed era finito in fondo al mare”.

Mi vennero i brividi.

 

2) Il siluro sugli scogli...

di Franco Rinaldi


Starsene seduti al sole su uno scoglio ad osservare i siluri lanciati dal Siluripedio era per noi ragazzi il massimo del divertimento. Ulteriormente arricchito , se ce ne fosse stato ancora bisogno, da un bel bagno ristoratore, tra un siluro e l'altro, nell'acqua limpida di Punta Madonnina.

La guerra sicuramente c'era. Lo provavano i militari addetti alle batterie contraeree che incontravamo in paese, il via vai per il porto di imbarcazioni armate tedesche, i comunicati alla radio e le conversazioni preoccupate in famiglia. La guerra c'era, si, ma era lontana, e tutto sommato, per noi ragazzi era cambiato ben poco. La vita scorreva come prima.

E quindi, per dirla tutta, a noi ragazzi della guerra non c'importava un fico, si stava bene anche così.

Ora poi c'era anche il Siluripedio allo Sconcione, che con i suoi lanci di siluri movimentava un po' gli assolati giorni di quell'estate del 1943.

Quand'era in programma qualche lancio di siluri noi del gruppo lo venivamo subito a sapere. E non era difficile. Alcuni che abitavano vicino al Siluripedio o che addirittura avevano un familiare che lavorava al suo interno, erano delegati a vigilare e riferire. Quando venivano a sapere, o direttamente o da un rituale movimento di barche e motoscafi davanti alla rampa, di un prossimo lancio correvano ad informare gli altri.

Poi tutti insieme andavamo a prendere posto, in prima fila sugli scogli, in attesa del lancio.

Un tonfo sordo, alti spruzzi sul mare e via! Il siluro correva sotto il pelo dell'acqua, rapido ed invisibile, verso il mare aperto lasciandosi dietro una scia bianca vorticosa. Alcune barche opportunamente distribuite sullo specchio di mare antistante la rampa controllavano che il siluro facesse il suo dovere e si dirigesse là dove doveva andare mentre un veloce motoscafo lo inseguiva a debita distanza senza mai perderlo d'occhio.


Un altro siluro, questa volta inglese, finito su una spiaggia ligure

(tratto dal sito Betasom.it)

Quando il siluro aveva finito la sua corsa iniziavano le operazioni di recupero, che noi purtroppo non potevamo goderci perchè era ormai troppo al largo.

 

Quel giorno non andò così.

Mentre noi ragazzi, ed altri spettatori, eravamo come al solito assiepati sugli scogli, là dove adesso c'è la Villa Orsomando, il siluro, regolarmente lanciato e con tanto di barchini e motoscafo a controllare, deviò dal sentiero che i suoi creatori gli avevano tracciato e prese ad andarsene dove gli pareva.

Gran suono di sirene e sbracciamenti dei controllori dalle barche.

Il siluro non se ne curò minimamente. Si indirizzo verso la costa e venne ad approdare sugli scogli, a poca distanza da noi che con gli occhi sgranati osservavamo le sue evoluzioni.

Meno male che era un siluro disarmato...

Giorno indimenticabile. Ce ne fossero di siluri così, pensavamo tornando a casa....


3) Un ospite indesiderato...

di Franco Rinaldi

L'ospite è sacro” dicevano gli antichi. Se si comporta bene, era sottinteso.

Ma lo straniero che si presentò sul tratto di mare davanti a Porto Santo Stefano non si comportò per niente bene. Era un sommergibile inglese. Un emissario, quindi, della perfida Albione.

Era l'estate di un anno che non ricordo più, anno di guerra comunque, e noi ragazzi, come al solito, facevamo il pieno di mare e di sole allo Sconcione. Qualcuno – ricordo Livio Ghezzi e Maria Varoli – in pattino remacchiando di qua e di là, altri sugli scogli o facendo il bagno nell'acqua limpida di casa nostra. Poco più in là alcuni soldati delle batterie costiere in libera uscita prendevano il sole o facevano il bagno, come noi.

In uno scenario paesano così balneare e rilassato è difficile immaginare un sommergibile che emerge improvvisamente dal mare.

Ma successe.

A qualche centinaio di metri da noi, al largo dell'imboccatura del porto del Valle, un sommergibile – inglese, si venne poi a sapere – emerse, completo di tutti i suoi accessori da guerra e con la ferma determinazione di usarli.

E all'improvviso, il tratto di mare antistante il paese divenne scena di guerra:

...dal mare il sommergibile sparava con il suo cannone di bordo, in direzione del porto, verso un innocuo rimorchiatore che transitava lentamente, o forse – non ricordo – sostava in attesa di qualcosa da rimorchiare...

...sulla riva i militari uscivano precipitosamente dall'acqua e in costume da bagno, raccolti i loro vestiti, correvano verso le batterie...

...noi ragazzi, allibiti e quasi paralizzati, assistevamo dagli scogli al cannoneggiamento guardando, ora il sommergibile, ora il rimorchiatore, come gli spettatori in una partita di tennis...

...Livio Ghezzi e Maria Varoli sul loro pattino remavano a tutta forza verso la riva in cerca di salvezza....

L'impari scontro, del tutto unilaterale, non durò molto. Quel tanto però sufficiente a consentire che qualche cannonata giungesse a segno..

Poi il sommergibile soddisfatto – nemmeno avesse affondato una corazzata – si immerse nuovamente e scomparve. Non prima però di aver lanciato un siluro verso il porto che – a quanto pare – andò a impigliarsi nella rete di protezione.

A conclusione della scena di guerra arrivarono le cannonate da parte delle batterie costiere verso l'intruso, più che altro a far vedere che erano incazzatissime per l'intrusione, dal momento che il sommergibile si era già immerso e se ne stava andando per i fatti suoi.

Questo fu il nostro primo giorno di guerra. Noi ragazzi corremmo a casa entusiasti di poter raccontare ciò che avevamo visto “con i nostri occhi”, Livio Ghezzi e Maria Varoli lo scampato pericolo.

Qualche tempo dopo la guerra sarebbe arrivata sul serio anche a Porto Santo Stefano.

 

4) Noi, sfollati a Calagrande...

di Franco Rinaldi

L’inverno 1943 – 1944 fu molto mite meteorologicamente, ma ostile e disagiato per tutti gli abitanti dell’Argentario, in particolare per i santostefanesi, a causa della guerra.

Eravamo “sfollati” in campagna, come del resto tutti gli abitanti del paese, dopo il primo disastroso bombardamento aereo di Porto S. Stefano, effettuato alle ore 12,30 dell’8 dicembre 1943. Primo di una lunga serie, causò, forse perchè inatteso, più vittime ( 34 morti e 12 feriti) di tutti i restanti bombardamenti, cannoneggiamenti e mitragliamenti, del conflitto.

Tutti i paesani si erano dispersi per la campagna, i monti e le valli del promontorio; il Municipio di Monte Argentario si era trasferito presso il Convento dei Padri Passionisti. Si erano occupate grandi o piccolissime e fatiscenti casette agricole, erano state costruite baracche e capanne. Ogni gruppo di famiglie aveva provveduto a costruirsi un rifugio antiaereo scavato nella roccia o nell’insicuro terreno calcareo.

Noi, mio padre e mia madre, le sorelle Gina e Lela, il cognato Mario Cristoforetti, marito di Lela, mio fratello Emilio, i nipoti Bruno e Danilo, figli di Gina, ed io stesso, nove in tutto, avevamo occupato una discreta casetta agricola con tetto in cotto e intonacata dentro e fuori, di circa 20 metri quadrati, una vera sciccheria, di proprietà del compare Damiano Rosi, in località Le Colonne di Calagrande, a circa cinque chilometri dal paese. Mio fratello Renzo, 2° Capo della Regia Marina imbarcato sull’incrociatore Fiume, era stato dato “disperso” (così venivano chiamati i morti non accertati della guerra) nella grande battaglia navale di Capo Matapan del 28 Marzo 1941. Mio cognato Umberto Piccinotti, marito di Gina, maresciallo dell’Aeronautica Militare, era prigioniero in Germania, perché catturato dai tedeschi mentre il suo reparto era in ritirata, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia.

Eravamo quindi tre famiglie di sbandati, ricoverati in un unico, anche se decente, locale. Ricoverati, perché il locale era appunto un ricovero di attrezzi agricoli, senza servizi. Mario, l’infaticabile e insostituibile capo tribù, aveva costruito un robusto letto matrimoniale a due piani che insieme ad un lettino ed una branda pieghevole occupavano la zona notte. Il soggiorno era lo spazio della brandina pieghevole, che veniva chiusa durante il giorno. In un angolo c’era pure una specie di camino che costituiva la cucina. Tuttora, a tanti anni di distanza, non mi capacito di come in quella stanza potesse esserci tutto quello spazio. Quando poi veniva Alfredo, il genero del compare, un paio di volte all’anno, per espletare il lavoro di manutenzione di un paio di poste di vigna che facevano parte della proprietà, accadeva il massimo. Alfredo era sfollato con la sua famiglia al Monte dei Frati, dall’altra parte dell’Argentario, quasi tre ore di cammino, e quindi, dopo una giornata di lavoro nella vigna, come potevamo farlo ripartire a piedi per tornare a casa? Allora la notte veniva chiusa la porta, steso uno strapuntino in terra per Alfredo e, a meno di qualche bombardamento notturno, nessuno poteva più uscire fino alla mattina. Gli inquilini a quel punto erano diventati dieci.

Intanto stava per venire alla luce Raul, figlio di Mario e Lela.Quasi per miracolo, nessuno mai si ammalò durante tutto il periodo trascorso nell’accampamento. Il tempo, come ho detto, fu meraviglioso e il luogo era stupendo; non a caso, dopo il conflitto, sono state costruite in quella zona le più belle ville e a trenta metri dalla nostra casetta fu costruito il night “Strega Del Mare”, la prima e più famosa discoteca dell’Argentario. Beneficiavamo di un clima incantevole e un panorama mozzafiato. La mattina, affacciandoci alla casetta dopo un bombardamento notturno, con uno sguardo potevamo verificare tutti i danni provocati dalle bombe cadute nei pressi e le casette eventualmente colpite o distrutte. Sfortunatamente avevamo vicino, tre o quattrocento metri in linea d’aria, anche il Semaforo della Marina Militare di Calagrande e a causa di questo, dovemmo subire due o tre mitragliamenti di aerei da caccia a bassa quota. I mitragliamenti cominciavano dalla nostra casetta, perché gli aerei spuntavano a sorpresa dal colle che era alle nostre spalle e terminavano dopo il semaforo. La notte potevamo agevolmente seguire la discesa e caduta dei bengala e la mattina all’alba iniziava la gara per il ritrovamento dei piccoli paracadute di seta, che servivano per ricavarci fazzoletti e mutande di pregio. Per noi ragazzi era veramente un grande gioco e tutto faceva parte di una fantastica avventura. Beata incoscienza degli adolescenti!

Dopo una quindicina di giorni di permanenza in casetta, mia sorella Lela inaspettatamente ebbe le doglie: era Raul che si annunziava prematuramente. Naturalmente non poteva nascere dove eravamo; allora Mario in fretta e furia si procurò un carretto a mano con grandi ruote, di quelli usati per il trasporto delle casse di pesce dai motopescherecci alle “friggere”, e vi caricammo sopra Lela, sdraiata su un paio di cuscini. Poi, con me alle stanghe e Mario che spingeva dietro, ci avviammo lungo la strada panoramica verso il paese, al nostro appartamento miracolosamente ancora intatto.

La nostra casetta era vicinissima al termine della strada panoramica: una bella strada non asfaltata, costruita negli anni trenta. Mia mamma seguiva il carretto come la Madonna. Era il giorno di Natale. Ricordo un cielo terso e un vento di tramontana fortissimo, che nelle curve, specialmente quella della Villa Feltrinelli dove sboccava impetuoso, sollevava la ghiaietta dalla strada. E ricordo il dolore che mi faceva scaraventandola con forza sulle gambe (avevo i pantaloni corti), e la disperazione di non poter lasciare le stanghe, perché se lo avessi fatto sarebbe accaduta una tragedia e Raul sarebbe nato sulla strada.

In serata arrivammo a casa. Mario si precipitò a chiamare la balia, anch’essa sfollata nelle campagne, e la mattina dopo, il 26 Dicembre 1943, giorno di Santo Stefano, nacque felicemente Raul Stefano. La balia, dopo il parto, fece coraggiosamente un paio di visite al pargolo ed alla puerpera affrontando la strada e le bombe e dopo un paio di giorni tornammo tutti nella casetta; il paese, come ripeto, era disabitato.

A causa, forse, della nascita prematura, Raul, poco più che settimino e quindi dal fisico non troppo robusto, a tre mesi, si prese la tosse asinina e il Dott. La Cava consigliò di aggiungere al poco latte materno un po’ di latte d’asina; sarebbe servito a fortificare le difese dell’organismo. Il Dott. Paolo La Cava, medico condotto di Porto S.Stefano, avrebbe meritato, insieme alla levatrice Silvia, una medaglia d’oro al valore civile, per la sua umanissima e coraggiosa attività, l’assistenza umile e disinteressata nonché la piena disponibilità nell’affrontare faticosi e disagiati percorsi per raggiungere i pazienti bisognosi della sua opera. Arrivava ovunque fosse richiesto il suo intervento e aiuto. Ha avuto la riconoscenza di tutto il popolo sbandato, ma in seguito, mai nessuno dei miei concittadini amministratori, ha avuto il pensiero riconoscente di ricordarlo e di dedicargli almeno una strada del paese. Questa è vera e ottusa ingratitudine!

Tornando a noi e alla tosse di Raul, dopo una fortunata ricerca nella zona, trovammo una “somara” che aveva partorito di recente e, ottenuta la comprensiva approvazione del proprietario dell’animale, io e mio fratello Emilio, a turno, andavamo tutte le sere da “Gasperino”, fratello di Ada l’infermiera, conoscente di mamma, e distante da noi non più di un chilometro, a prendere una bottiglietta da “gazzosa” del prezioso latte di asina. Trovandosi la casetta vicinissima alla strada panoramica, un giorno arrivò improvvisamente un camion di tedeschi che si misero a “reclutare” degli operai per scavare trincee e costruire piazzole per cannoni o mitragliatrici proprio vicino a noi, al termine della strada. Mio cognato non c'era, o si era nascosto, ma mio padre, cinquantasettenne impiegato statale, sempre stato nell’ufficio telegrafico, fu “arruolato”.

Noi non conoscevamo il motivo della retata e quindi ricordo che lo spavento dei miei fu tantissimo. Per tutto il giorno aspettammo il rientro, se mai ci fosse stato, e non potete immaginare la gioia che provammo nel vederlo rientrare, la sera, stanco morto, spaventato, con un pezzo di pane in mano. In seguito quelle buche non servirono a niente perché i tedeschi erano già in ritirata.

 

5) Ricordo mio padre...

di Guidi Duilio

Ricordo che mio padre mi raccontava:

… di un uomo sordomuto, che sentiva i bombardieri prima che arrivassero e che a motti faceva capire agli altri, aprendo le braccia, che stavano per arrivare …

… degli zii che durante i bombardamenti, seguivano a occhio nudo le bombe che se non esplodevano venivano disinnescate e il tritolo estratto per per scavare rifugi nel monte.

… di quella volta che sono anche stati bloccati in un rifugio perchè i detriti avevano ostruito il passaggio.

… di quando sono stati mitragliati lui e un suo amico, e come un parente, visto che erano vicini a un muro di un giardino, li avesse consigliati di riparasi alla base del muretto visto che poi i 2 caccia sarebbero ritornati dal lato opposto per ri-mitragliare..

… di quando c'erano i tedeschi e andavano a portar loro la carne vedendo che regalavano dolciumi ai bambini. E poi lo stesso con gli americani.

…di mio bisnonno che aveva due paranze  che per prudenza spostò dal molo davanti all' attuale Comune a quello da dove adesso parte il traghetto per il Giglio. E che poi ovviamente affondarono lo stesso!

…della vicina di mia nonna Pignatelli (quando abitavano a lato del Comune sulla scalinata a dx) che oltre a perdere i fratelli è rimasta con un braccio leso dalle macerie della propria casa bombardata.

... del dopo guerra, quando si giocava sui cannoni contraerei abbandonati e ci si girava come sulle giostre e di quando si levava la balistite dai bossoli per andare a pesca!  Che paura si presero dei miei amici quella volta che l’esplosione fu tremenda e come poi non ci provarono più!  Poi dell’ esplosione di pescherecci nelle cui reti si impigliavano i siluri e le mine, come successe allo "Zucchino"! Del piroscafo che esplose in rada, quello me lo ha citato.

Di più adesso non ricordo...

 

 

2008 - Capodomo - di Raul Cristoforetti